SARA ENRICO, artist
April 3rd 2020
ENG
Sara Enrico is an Italian artist who lives and works in Turin.
Her interest revolves around the idea of weaving seen as an activating of connection, starting from certain pictorial paradigms to observe the relationship between the body, clothing and the space, and from experimentation with textile or industrial materials through manual and digital processes. As a physical and linguistic system, her work interprets reality by experiencing “tactile proximity”.
She is among the winners of the IV edition of Italian Council (2018); in 2017 she was the recipient of the New York Prize.
ITA
Sara Enrico è un’artista italiana che vive e lavora a Torino.
Il suo interesse ruota attorno al concetto di trama come tessitura in grado di attivare relazioni, osservando il rapporto tra corpo, abito e spazio a partire da una rilettura di certi paradigmi pittorici, e dalla sperimentazione con materiali tessili e industriali attraverso processi manuali e digitali. Come sistema fisico e linguistico, il suo lavoro interpreta la realtà attraverso l’esperienza della “prossimità tattile”.
Sara Enrico è tra i vincitori della IV edizione dell’Italian Council (2018) e del Premio New York (2017).
ENG
LZ: Your sculpture is “anti-monumental”, I mean when you work with sculptures lying on the ground in a state of rest or abandonment, or when the fold becomes a plastic element. How much does all this have to do with the textile language?
SE: The fold is an elementary, direct and reversible gesture. It creates a space. I think of the materials and movements I can impress to obtain shapes, exploring two and three-dimensionality, equally. I see a possibility of action in horizontality: the prediction of a path leading to verticality. Bend over, stand up and stretch. I am interested in the sensitive materiality of the fold, the imprint. The surface comes alive and creates empathy in forms. In my first works I started working on the painting canvas, moving its reception towards the sculpture. Thanks to its flexibility it can change. I used it as a formwork, as a matrix. It can be configured in different ways in space or on the scanner to record its digital track. From a reflection on covering and surface, I found myself observing some intersections with the textile language, so that I often use the weaving metaphor.
IT
LZ: La tua scultura è anti-monumentale, penso a quando lavori con sculture adagiate a terra in stato di riposo o abbandono, o quando la piega diventa elemento plastico. Quanto tutto questo ha a che fare con la specificità del linguaggio tessile?
SE: La piega è un gesto elementare, diretto e reversibile, crea uno spazio; penso ai materiali e ai movimenti che posso imprimere per ottenere forme, esplorando indifferentemente la bidimensionalità e la tridimensionalità. Nell’orizzontalità vedo una possibilità di azione, la previsione di una spinta che porta ad una verticalità. Piegarsi, alzarsi e allungarsi. Mi interessa la materialità sensibile della piega, dell’impronta: la superficie si anima, crea empatia nelle forme. Nei miei primi lavori sono partita lavorando la tela da pittura, spostandone la ricezione verso la scultura: grazie alla flessibilità essa si modifica; l’ho usata come cassaforma, come matrice, e si può configurare in diversi modi nello spazio o sullo scanner per registrarne la sua traccia digitale. Da una riflessione sul rivestimento e sulla superficie, mi sono ritrovata ad osservare alcune intersezioni con il linguaggio tessile, tanto da usare spesso la metafora della trama.
ENG
LZ: What attracts you about the sublimation printing technique on fabric, which you have used several times in your work?
SE: The transfer process: a pattern is imprinted first on paper and then on fabric. It is a process that conceals a passage and relates to different media, with the idea of copying and losing at the same time.
IT
LZ: Cosa ti attrae della tecnica di stampa sublimatica su tessuto, che hai utilizzato spesso nel tuo lavoro?
SE: Il processo del trasferimento: un pattern viene impresso prima su carta e poi su tessuto, è un procedimento che cela un passaggio, si relaziona con diversi supporti, con l’idea di copia e di perdita insieme.
ENG
LZ: One of your latest projects, The Jumpsuit Theme, winner of the IV edition of the Italian Council, is inspired by the TuTa invented by Ernesto Thayat in 1919. What does the reference to this particular piece of clothing mean to you?
SE: The jumpsuit is a simple garment, but widely and differently interpreted (from embodying a political utopia or linking to work, from fashion to sport, passing through the Devo and Fidel Castro). Often characterised by a single piece, it’s a geometric and intuitive shape: by wearing it, the body finds its space and fit, also with a certain appeal. Perhaps what most amused me is to think of the sweatsuit, the one you wear when you want to feel comfortable, together with the clumsy and playful character of that garment. The in-depth analysis of the overall, led me to the Thayat’s TuTa (for the T-shape when opening the arms), and then to Madeleine Vionnet, The French fashion designer with whom he collaborated for some time, around 1920. I isolated some reflections they both made on the pattern, on treating the fabric as sculptural material and on the fluid and declinable being of a garment, without making it a structure that would have somehow reconstructed the physicality of a body. I asked myself how I could transpose a sartorial vision into a sculptural and spatial one by combining materials from different fields. The overalls-formworks are in fact made of fabric starting from models I have drawn from simple shapes, rolling up nylon and working on the variations in shape and posture that they could then have assumed by pouring concrete inside them. Using and reinterpreting the shape of the suit to make sculptures allowed me to experiment with a soft formwork and to imagine the landscape on which these “body-suits” would have lain down, thinking of the legs and the arms when they are relaxed, like in certain paintings by Matisse. It seemed to me a way to record a form of intimate and unintentional choreography with sculpture.
IT
LZ: Uno dei tuoi ultimi progetti, The Jumpsuit Theme, vincitori della IV edizione dell'Italian Council, si ispira alla TuTa inventata da Ernesto Thayat nel 1919. Cosa significa per te il riferimento a questo particolare capo di abbigliamento?
SE: La tuta è un indumento semplice, ma ampiamente e diversamente interpretato (dall’incarnare un’utopia politica o legarsi al lavoro, dalla moda allo sport, passando per i Devo e Fidel Castro). Caratterizzata spesso da un unico pezzo, è una forma geometrica ed intuitiva nel suo sviluppo: indossandola, il corpo trova un suo spazio e una propria vestibilità, emanando anche un certo appeal. Forse ciò che più mi ha divertito prima di tutto è pensare alla tuta, quella in felpa, che indossi quando vuoi sentirti comodo e al carattere goffo e giocoso di quel capo. L’approfondimento sull’abito overall mi ha portata alla TuTa a T di Thayhat (per la forma a T, aprendo le braccia) e poi a Madeleine Vionnet, stilista francese con cui ha collaborato per diverso tempo, intorno al 1920. Ho isolato alcune riflessioni che fecero entrambi sul taglio, sul trattare il tessuto come materia scultorea e sulla portabilità fluida e declinabile di un capo, senza farne una struttura che avrebbe in qualche modo ricostruito la fisicità di un corpo. Mi sono chiesta come poter trasporre quella visione sartoriale in una scultorea e spaziale, combinando materiali di ambiti diversi. Le tute-cassaforma sono realizzate infatti in tessuto a partire da modelli che ho tratto da forme semplici, arrotolando del nylon e lavorando sulle variazioni di forma e postura che avrebbero potuto poi assumere con la colata di cemento. Usare e reinterpretare la forma della tuta per farne delle sculture mi ha permesso di sperimentare con l’utilizzo di una cassaforma morbida, e di immaginare il paesaggio sul quale queste ‘tute-corpi’ si sarebbero adagiate, pensando alle gambe e alle braccia quando sono in rilassamento, un po’ come in certi dipinti di Matisse. Mi è parso un modo per registrare con la scultura una forma di coreografia intima e non intenzionale.